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Nuovi materiali per la biostampa 3D di cartilagine artificiale

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L’idea di sostituire parti non funzionanti del nostro corpo con componenti bioprinted sta prendendo sempre più piede grazie alla versatilità di tale procedura e alla possibilità di personalizzarne i prodotti. In questo ambito si sta sviluppando la cartilagine, tessuto connettivo umano che funge principalmente da sostegno.

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La sua struttura è particolarmente semplice poiché composta da cellule, i condrociti, immersi in un’abbondante sostanza intercellulare da essi sintetizzata, formata da fibre di collagene e da una matrice amorfa gelatinosa. Questa caratteristica che la rende ideale per la biostampa non è tuttavia esente da problemi.

Affinché il materiale bioprinted assomigli alla cartilagine, deve essere allo stesso tempo sufficientemente forte e morbido da fornire “un’imbottitura” per il corretto movimento delle articolazioni. Gli esperimenti condotti finora da molti istituti in tutto il mondo, anche se promettenti, hanno prodotto bioinks troppo morbidi che si indeboliscono nel tempo. Trovare il giusto equilibrio è reso più difficile dal fatto che il materiale deve anche essere stampabile in 3D, ovvero abbastanza morbido per l’estrusione a temperature compatibili con la vita cellulare e, allo stesso tempo, in grado di solidificare (o gellify) abbastanza velocemente in modo che possa mantenere la forma progettata digitalmente.

Un modo piuttosto comune di ottenere cartilagine bioprinted è lo sviluppo di uno scaffold in un materiale biocompatibile come gelatina, alginato, vetro carboidrati e termoplastici come l’acido polilattico (PLA) applicando ad esso un bioink fatto di cellule cartilaginee.

Gli scienziati dell’ETH di Zurigo pensano di aver trovato questa combinazione “perfetta” combinando un polimero noto come pNIPAAM (N-isopropilacrilammide) con l’acido ialuronico (HA) per creare un bioink liquido a temperatura ambiente e solido quando viene stampato su un substrato riscaldato a temperatura corporea (37° C). Per rendere l’efficacia del sostegno più durevole, anche sotto compressione meccanica, viene aggiunto un secondo polimero, il condroitin solfato metacrilato (CSMA), che si lega covalentemente all’interno del gel HA-pNIPAAM per formare così una rete stabile.

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Il mix HA-pNIPAAM apre a tutta una serie di polimeri che si possono ora stampare con buona vitalità delle cellule e buona risoluzione“, dice Zenobi-Wong del Politecnico federale di Zurigo. “HA-pNIPAAM può sostanzialmente essere combinato con qualsiasi precursore in forma di idrogel reticolabile … [e] servire come base per molti altri bioinks per diverse applicazioni di ingegneria tissutale“.

Gli studi isulla “neocartilagine” sono numerosi. Un altro esempio è la lotta all’osteoartrite di cui si occupa il Dr. Rocky Taun dell’università di Pittsburgh.

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Il suo team sta mettendo a punto una biostampante 3D che intreccia le cellule staminali del paziente con fattori di crescita biologici all’interno di uno scaffold per dare forma ad una struttura cartilaginea in grado di rimpiazzare quella naturale. Il vantaggio della nuova tecnica consiste nell’uso (per solidificare i tessuti stampati) di una luce che rientra nello spettro del visibile al posto della luce UV, la quale può causare seri danni alle cellule e al DNA. Da evidenziare inoltre che il metodo non prevede uno scaffold preesistente a cui far attecchire le cellule, che vengono prima sospese nella soluzione polimerica. Quest’ultima poi viene fotopolimerizzata con le cellule già incorporate e distribuite in maniera omogenea, evitando così la formazione di irregolarità e difetti del tessuto stampato che si presentano invece in altri metodi.

Nel mondo della stampa 3D è tutto in evoluzione: non ci resta che aspettare che i tempi siano maturi per poterne poi gustare dei frutti che oggi ci sembrano “miracoli”.

Lusiana Pasquini – Open BioMedical Initiative

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